Giovani motivati, iper-tutelati o frastornati? Lo sport come allenamento di vita

Parafrasando la famosa frase di Archimede “Datemi una Leva e vi solleverò il mondo”, potremmo dire che la motivazione è la “leva” indispensabile e necessaria per affrontare ogni situazione. Nella vita come nello sport, la spinta interiore verso gli obiettivi da raggiungere è davvero la chiave del successo.

La determinazione nel superare gli ostacoli, la tenacia nel perseguirli e la ferrea volontà nell’ottenere dei risultati sono gli ingredienti di un percorso di crescita sano e consapevole.

Nello sport giovanile, il tema della motivazione è rilevante, poiché se gestita adeguatamente, aiuta i ragazzi a sviluppare caratteristiche positive, come l’autonomia, la consapevolezza delle proprie capacità, la collaborazione e la grinta.

Eppure, nonostante le potenzialità evidenti della partecipazione sportiva, il fenomeno dell’abbandono è frequente e la discontinuità della pratica spesso emerge come elemento ricorrente.

Da uno studio recente sul tema del DROP-OUT sportivo dei Giovani, sviluppato dall’Osservatorio
#CONIBAMBINI e pubblicato nel 2021, rispetto ai motivi principali emerge che: “Tra i più piccoli, nella fascia 3-5 anni, il motivo indicato più spesso è l’età del bambino. Nelle altre classi di età, l’inattività viene ricondotta a una mancanza di tempo e interesse. Tali risposte crescono all’aumentare dell’età del bambino. Ma non sono infrequenti anche cause legate alla condizione economica del nucleo familiare. Queste riguardano il 20% dei ragazzi tra 11 e 17 anni e quasi il 30% dei bambini tra 6 e 10 anni. Altra causa non irrilevante è quella legata alla mancanza di impianti o la scomodità degli orari di apertura (circa un decimo delle risposte dai 6 anni in su).”

Il dato più allarmante del rapporto è proprio legato al concetto di “mancanza di tempo e interesse”, poiché evidenzia un approccio apatico ad un aspetto potenzialmente ludico della quotidianità.

In questo quadro non troppo confortante interviene sicuramente anche l’effetto Covid-19, che non a caso ha amplificato l’atteggiamento indolente di bambini e adolescenti, spingendoli verso un utilizzo eccessivo di strumenti e piattaforme digitali.

In particolare per i Social Media la percentuale di utilizzo è salita per i bambini (6-10 anni) al 37%, e al 69% per i ragazzi (11-13 anni), fino ad arrivare all’89% per i ragazzi con più di 14 anni.

A tutta questa complicata situazione, si affiancano un contesto sociale piuttosto impoverito e un nuovo concetto di genitorialità.

Da una parte la società del “Tutto e Subito”, amplificata dall’immediatezza dei social e dai testimonial mediatici di scarso valore ma di grande successo, dall’altra il rapporto alterato tra genitori e figli.

Padri e Madri più assenti, ma eccessivamente accomodanti, che compensano con facili elargizioni o eccessiva protezione, non allenando alla motivazione e rendendo poco autonomi i figli.
Si è passati dall’educazione di ieri, dove l’obiettivo era supportare la crescita dei ragazzi facendo capire loro che per ottenere qualcosa bisogna darsi da fare, alla mancanza di un’educazione da parte dei genitori di oggi, rapiti per primi da una società che premia la visibilità senza sforzo e senza meriti.

L’esigenza di compensare eventuali esperienze negative vissute in prima persona, sollevando i propri figli da responsabilità e difficoltà, porta a sostituirsi a loro più che ad aiutarli. A lungo andare, la disabitudine ad affrontare i problemi e a trovare una soluzione in modo autonomo, determina un atteggiamento decisamente poco combattivo nei ragazzi. Alla mancanza di grinta, si associa nel tempo anche una visione distorta di se stessi, tendenzialmente vincenti senza sforzo… e in crisi di fronte al primo riscontro negativo.

L’assenza di supporti adeguati da parte delle figure di riferimento fa sì che l’impegno richiesto in campo e la spinta verso gli obiettivi possano destabilizzare psicologicamente i ragazzi, improvvisamente travolti da un mare di responsabilità diretta.

Nella mia esperienza clinica, ho più volte osservato l’insorgere di alcuni disturbi d’ansia negli adolescenti, sfociati poi nella perdita di interesse e nell’abbandono della pratica sportiva, dettati essenzialmente da dinamiche familiari troppo protettive e poco responsabilizzanti.

L’ansia da prestazione o la scarsa autostima, per esempio, generate dalle richieste eccessive dei genitori e dalla poca considerazione per l’impegno.

L’entusiasmo di praticare uno sport si scontra nei fatti con la necessità di esercitarsi e di migliorarsi, vivendo il confronto con gli altri come spinta per fare di più e senza abbattersi.

La fiducia in se stessi è dunque la vera chiave della motivazione e il focus educativo da perseguire.

I genitori fuori e gli allenatori in campo, devono insegnare ai giovani a gestire la sconfitta e a utilizzare gli errori, esaltando i loro sforzi e sollecitandoli ad essere tenaci.

Il coach, in particolare, diventa una figura di riferimento e uno stimolo autorevole a trovare la motivazione: allena ai risultati ed alla grinta necessaria per raggiungerli, a non abbandonare senza aver provato fino in fondo, perché la sana competizione e la rabbia positiva sono le leve per andare avanti e migliorare nello sport, come nella vita.

In definitiva, non ci sono scorciatoie per la crescita personale: solo lasciando il porto sicuro e affrontando il viaggio in mare aperto si può davvero scoprire il mondo.

Bibliografia:
https://www.minori.gov.it/it/notizia/i-minori-e-lo-sport-rapporto-dellosservatorio-conibambini

https://www.sport.governo.it/it/comunicazione-ed-eventi/studi-ricerche-ed-analisi/impatto-del-covid-sullo-sport/indagine-conoscitiva-limpatto-del-covid-sullo-sport/

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